In principio, a metà degli anni '70, furono Giorgio Chinaglia e Pino Wilson. Vent'anni dopo toccò a Donadoni, Zenga, Caricola e Galderisi che anticiparono l'arrivo dei vari Nesta, Pirlo, Di Vaio e Giovinco. Ora con Chiellini, Insigne, Criscito e forse anche Bernardeschi una nuova ondata di giocatori italiani sta invadendo il calcio nordamericano.
Un fenomeno non nuovo quello che da decenni vede molti protagonisti del nostro calcio ricalcare il tragitto tracciato mezzo millennio prima dal più famoso genovese della storia ma che in questa estate sembra aggiungere l'ennesimo capitolo ad un romanzo lungo quasi mezzo secolo.
Ma cosa spinge tanti calciatori italiani a trasferirsi oltreoceano? Calciomercato.com lo ha chiesto ad Alessio Sundas, agente Fifa originario di Pistoia, da anni residente e operativo in Florida, che il fenomeno dei piedi in fuga lo conosce bene in quanto protagonista e artefice da quasi un decennio: "Chi sceglie di venire a giocare negli USA non lo fa certo per i soldi. O almeno principalmente non per quello. Se così fosse potrebbero tranquillamente guadagnare di più in altri paesi. La decisione è invece dettata da altri fattori: ambientali, sociali e anche culturali. Qui si vive bene, ci sono buone possibilità di crearsi una nuova vita fuori dal calcio e di far studiare i figli in scuole di eccellenza mondiale. Inoltre un calciatore a fine carriera si trova a giocare con molte meno pressioni rispetto all'Italia e in un calcio molto meno frenetico e logorante di quello europeo. Insomma, come hanno detto alcuni di loro, sbarcare in America è davvero una scelta di vita".
Da esperto conoscitore del soccer è sorpreso da questa nuova ondata di migranti del pallone che lasciano il nostro calcio per accasarsi in Usa?
"No. Io sono qui ormai da tanti anni, vivo in Florida da cinque ma già da prima avevo stretto contatti direttamente dall'Italia. Ho imparato a conoscere bene questo mondo perché in questo periodo ho favorito l'arrivo negli States di molti professionisti del pallone. Non tanto calciatori, ai quali ho comunque fornito un appoggio ai rispettivi procuratori, quanto allenatori, preparatori atletici, dirigenti. E ogni anno sono sempre di più coloro che mi contattano per provare l'esperienza a stelle e strisce. Il fenomeno di queste settimane, quindi, non mi sorprende affatto".
Ma perché in America c'è così tanto interesse per i nostri calciatori? "Agli americani piace tutto dell'Italia. L'arte, il cibo, la musica. E ovviamente il calcio non fa eccezione. La Serie A è molto seguita. Però loro considerano il soccer più come uno spettacolo che come uno sport. Il portare grandi nomi, anche se a fine carriera, nelle loro squadre li permette di riempire gli stadi e di vendere ogni spazio pubblicitario disponibile, creando dunque un discreto business. Qui la gente si affeziona più ai giocatori che al club, va da sé che un nome importante può spostare un numero importante di tifosi da una squadra all'altra. A questo aggiungiamo la disponibilità degli italiani a trasferirsi negli USA, di cui ho parlato prima, e il quadro è completo".
Quindi lei ritiene che presto altri italiani seguiranno lo stesso esempio? "Ne sono convintissimo. E ripeto non saranno soltanto i giocatori a trasferirsi qui. Ma un po' tutti i professionisti del calcio".
Contemporaneamente però si assiste anche ad un fenomeno in qualche modo inverso. Negli ultimi anni sono sempre di più le società professionistiche italiane acquistate da proprietà statunitensi o canadesi. Perché ciò avviene? "Ovviamente per business, e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi in molti casi di holding o di fondi che hanno nella differenziazione dei propri investimenti il proprio interesse principale. Come ho detto il calcio italiano qui tira molto e poter vantare nel proprio portafoglio la proprietà di un club tricolore è un motivo di grande orgoglio oltre che di forte interesse economico. La Serie A inoltre ha grandi potenzialità di crescita rispetto ad altri tornei europei il che motiva ulteriormente gli investitori ad arrivare nel nostro paese nella speranza di poter prendere parte in prima persona allo sviluppo del nostro calcio".
Fin dagli anni '70, epoca dei famosi Cosmos di Pelé e Beckenbauer, passando poi per il post Mondiale del '94, regolarmente si dice che il soccer sia pronto per conquistare gli americani. Fino ad oggi tuttavia ciò non è ancora avvenuto, se non in maniera piuttosto timida. Lei pensa che questa volta possa essere quella buona per far finalmente decollare il pallone a stelle e strisce? "Penso di no. Il calcio negli USA è ancora uno sport minore, che vanta appassionati di gran lunga inferiori a quelli dei loro sport tradizionali. I giovani sognano di diventare giocatori di football o di basket, non di calcio. Il sistema scolastico, poi, non favorisce la crescita dei calciatori. Mentre far parte di un college è fondamentale per chi pratica basket o football per il calcio ciò è un freno perché lega l'atleta all'istituto per molti anni, impedendogli di andare a far pratica già da giovanissimo all'estero e quindi di crescere in tornei importanti. Di recente qualche giovane americano, come Pulisic o Mc Kennie, è riuscito a sbarcare presto in Europa ma sono ancora troppo pochi per permettere un'impennata di talenti che darebbe senza dubbio un impulso a tutto il movimento".
Un fenomeno non nuovo quello che da decenni vede molti protagonisti del nostro calcio ricalcare il tragitto tracciato mezzo millennio prima dal più famoso genovese della storia ma che in questa estate sembra aggiungere l'ennesimo capitolo ad un romanzo lungo quasi mezzo secolo.
Ma cosa spinge tanti calciatori italiani a trasferirsi oltreoceano? Calciomercato.com lo ha chiesto ad Alessio Sundas, agente Fifa originario di Pistoia, da anni residente e operativo in Florida, che il fenomeno dei piedi in fuga lo conosce bene in quanto protagonista e artefice da quasi un decennio: "Chi sceglie di venire a giocare negli USA non lo fa certo per i soldi. O almeno principalmente non per quello. Se così fosse potrebbero tranquillamente guadagnare di più in altri paesi. La decisione è invece dettata da altri fattori: ambientali, sociali e anche culturali. Qui si vive bene, ci sono buone possibilità di crearsi una nuova vita fuori dal calcio e di far studiare i figli in scuole di eccellenza mondiale. Inoltre un calciatore a fine carriera si trova a giocare con molte meno pressioni rispetto all'Italia e in un calcio molto meno frenetico e logorante di quello europeo. Insomma, come hanno detto alcuni di loro, sbarcare in America è davvero una scelta di vita".
Da esperto conoscitore del soccer è sorpreso da questa nuova ondata di migranti del pallone che lasciano il nostro calcio per accasarsi in Usa?
"No. Io sono qui ormai da tanti anni, vivo in Florida da cinque ma già da prima avevo stretto contatti direttamente dall'Italia. Ho imparato a conoscere bene questo mondo perché in questo periodo ho favorito l'arrivo negli States di molti professionisti del pallone. Non tanto calciatori, ai quali ho comunque fornito un appoggio ai rispettivi procuratori, quanto allenatori, preparatori atletici, dirigenti. E ogni anno sono sempre di più coloro che mi contattano per provare l'esperienza a stelle e strisce. Il fenomeno di queste settimane, quindi, non mi sorprende affatto".
Quindi lei ritiene che presto altri italiani seguiranno lo stesso esempio? "Ne sono convintissimo. E ripeto non saranno soltanto i giocatori a trasferirsi qui. Ma un po' tutti i professionisti del calcio".
Contemporaneamente però si assiste anche ad un fenomeno in qualche modo inverso. Negli ultimi anni sono sempre di più le società professionistiche italiane acquistate da proprietà statunitensi o canadesi. Perché ciò avviene? "Ovviamente per business, e non potrebbe essere altrimenti, trattandosi in molti casi di holding o di fondi che hanno nella differenziazione dei propri investimenti il proprio interesse principale. Come ho detto il calcio italiano qui tira molto e poter vantare nel proprio portafoglio la proprietà di un club tricolore è un motivo di grande orgoglio oltre che di forte interesse economico. La Serie A inoltre ha grandi potenzialità di crescita rispetto ad altri tornei europei il che motiva ulteriormente gli investitori ad arrivare nel nostro paese nella speranza di poter prendere parte in prima persona allo sviluppo del nostro calcio".
Fin dagli anni '70, epoca dei famosi Cosmos di Pelé e Beckenbauer, passando poi per il post Mondiale del '94, regolarmente si dice che il soccer sia pronto per conquistare gli americani. Fino ad oggi tuttavia ciò non è ancora avvenuto, se non in maniera piuttosto timida. Lei pensa che questa volta possa essere quella buona per far finalmente decollare il pallone a stelle e strisce? "Penso di no. Il calcio negli USA è ancora uno sport minore, che vanta appassionati di gran lunga inferiori a quelli dei loro sport tradizionali. I giovani sognano di diventare giocatori di football o di basket, non di calcio. Il sistema scolastico, poi, non favorisce la crescita dei calciatori. Mentre far parte di un college è fondamentale per chi pratica basket o football per il calcio ciò è un freno perché lega l'atleta all'istituto per molti anni, impedendogli di andare a far pratica già da giovanissimo all'estero e quindi di crescere in tornei importanti. Di recente qualche giovane americano, come Pulisic o Mc Kennie, è riuscito a sbarcare presto in Europa ma sono ancora troppo pochi per permettere un'impennata di talenti che darebbe senza dubbio un impulso a tutto il movimento".